a cura della Dott.ssa Caterina Grisanzio e della Dott.ssa Flora Cordone
(testi e immagini tratti per gentile concessione da "Pistole cariche" di Caterina Grisanzio e dell'archivio storico dell'UDI)
Partendo dalla disamina del concetto di stereotipo e di pregiudizio, si presenteranno immagini legate alla rivista Noi Donne degli anni 40/50 Noi Donne e i manifesti dell’Associazione e, attraverso un parallellismo con immagini proposte dai media odierni, si condurrà una analisi dei modelli proposti; modelli che, consciamente ed inconsciamente, entrano nell’immaginario collettivo, formando degli assunti culturali che diventano difficili da scardinare. Negli ultimi anni il fenomeno del femminicidio ha assunto proporzioni drammatiche, tanto che numerose autorità istituzionali e politiche hanno collegato in parte questa drammatica emergenza ad un problema culturale: nel 2013, la ex Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha affermato che principale responsabile della mercificazione della donna è la pubblicità che in Italia, diversamente dal resto d'Europa, utilizza il corpo delle donne senza freni. "E' inaccettabile che in questo paese - ha detto - ogni prodotto, dallo yogurt al dentifricio, sia veicolato attraverso il corpo della donna. In Italia le multinazionali fanno pubblicità usando il corpo delle donne, mentre in Europa le stesse pubblicità sono diverse. Dall'oggettivazione alla violenza il passo è breve. Serve più civiltà ponendo delle regole. Basta all'oggettivazione dei corpi delle donne perché passa il messaggio che con un oggetto puoi farci quello che vuoi". Analogamente fenomeni quali il bullismo, il revenge porn, i disturbi del comportamento alimentare sono fenomeni che hanno anche radici culturali, legati alle immagini e ai modelli proposti.
Secondo alcuni, la pubblicità modifica i comportamenti sociali,
Secondo altri, esiste una dicotomia tra l'evoluzione degli stili di vita e il loro recupero pubblicitario.
Oggi lavoro e professione appaiono sempre meno rilevanti nel conferire l’identità sociale. Le scelte di consumo e il possesso di beni sono privilegiate per la comunicazione sociale della personalità.
Comunichiamo agli altri ciò che siamo veramente, i nostri gusti, la nostra sensibilità, il nostro stile di vita attraverso una sottile e, spesso, inconsapevole regia nelle strategie di shopping.
Dai miei abiti, le mie letture, le preferenze musicali, il tipo di alimentazione, la casa in cui vivo è possibile farsi un’idea molto precisa della mia personalità e del mio ruolo sociale.
Ciò che si aspira è comunicare agli altri i tratti più veri, più genuini della propria personalità.
Nel caso dell’immagine della donna, la pubblicità ha generalmente seguito la storia femminile, con qualche contributo innovatore apparso di tanto in tanto. Negli anni 45/50 la pubblicità esprime la gioia del consumo ritrovato. La donna è rappresentata accanto all’elettrodomestico, lo affianca, lo impreziosisce con la sua presenza. Il protagonista è l’elettrodomestico-prodotto’, la donna ha ruolo accessorio.
Il termine STEREOTIPO proviene dall’ambiente tipografico, dove fu coniato verso la fine del 1700 per indicare la riproduzione di immagini a stampa per mezzo di forme fisse (dal greco stereos= rigido e typos= impronta).
Lo stereotipo è un’opinione semplificata a proposito di un luogo, di una classe di individui, un oggetto o un avvenimento valutati per alcune caratteristiche salienti, sia positive, sia negative. Esso può essere utilizzato da un gruppo, che si riconosce come tale perché i suoi componenti sono accomunati da caratteristiche o qualità condivise, rispetto agli appartenenti a un altro gruppo con caratteristiche più o meno differenti, anche in questo caso con valore positivo o negativo.
L’introduzione nelle scienze sociali si deve ad un giornalista,
Walter Lippmann, che nel 1922 pubblicò un volume sui processi di
formazione dell’opinione pubblica, dove afferma che:
il rapporto conoscitivo con la realtà esterna non è diretto, bensì mediato
dalle immagini mentali che di quella realtà ciascuno si forma, in ciò
fortemente condizionato appunto dalla stampa.
Secondo Walter Lippmann tali immagini mentali, costituiscono una sorta di pseudoambiente con il quale di fatto si interagisce.
Hanno la caratteristica di essere delle semplificazioni spesso grossolane
e rigide, per facilitare la comprensione della complessità con cui il mondo si presenta.
Malgrado l’avanzato progresso della società occidentale moderna, la discriminazione delle donne è ancora presente e la pubblicità ne è un
potente veicolo.
( fa notizia che due astronaute si avventurino SOLE nello spazio, senza
essere accompagnate da colleghi…)
Gli stereotipi sono alla base della conservazione della divisione dei ruoli sociali. La costruzione del ruolo di genere è un processo che inizia molto presto nell’infanzia e va di pari passo con la costruzione dell’identità sessuale dell’individuo.
I bambini e le bambine si identificano, inevitabilmente, nei modelli proposti dall’ambiente che li circonda, modelli solitamente stereotipati che possono intrappolare gli individui in ruoli rigidi e difficili da mutare.
L’eliminazione degli stereotipi sessisti rappresenta un motivo fondamentale e ricorrente che deve percorrere, orizzontalmente e verticalmente, tutte le politiche, per contrastare le disuguaglianze fra donne e uomini.
Il concetto di stereotipo è strettamente connesso con quello di pregiudizio.
In pratica esso costituisce quello che si può indicare come nucleo cognitivo del pregiudizio.
Al pregiudizio possiamo dare delimitazioni diverse, a seconda del livello di generalità o di specificità che si decide di assumere.
Il massimo livello di generalità corrisponde al significato etimologico della parola, vale a dire giudizio che si mette in atto prima dell'esperienza o in assenza di dati empirici verificabili, che, quindi, può intendersi più o meno errato.
Al massimo livello di specificità, si intende, per pregiudizio un’idea, opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore (vocabolario “Treccani” on-line).
Pregiudizio – (anticamente: pregiudìcio - sostantivo maschile dal latino praeiudicium, composto di prae- «pre-» e iudicium «giudizio» - vocabolario “Treccani” on line).
Un pregiudizio può essere considerato un atteggiamento e come tale può essere trasmesso socialmente e culturalmente, e ogni organizzazione sociale avrà dei pregiudizi più o meno condivisi da tutti i suoi componenti. Inoltre – riflessione valida anche nel caso degli stereotipi – si tendono a costruire i pregiudizi soprattutto relativamente a persone appartenenti a un gruppo diverso da quello al quale si appartiene, di cui, necessariamente, si ha una conoscenza meno approfondita e, di conseguenza di cui si è meno in grado di vedere le differenziazioni interne.
Sesso e genere non costituiscono due dimensioni contrapposte
ma interdipendenti: sui caratteri biologici si innesta il processo di produzione delle identità di genere.
Traducono le due dimensioni dell'essere uomo e donna. Il genere è un prodotto della cultura umana e il frutto di un persistente rinforzo sociale e culturale delle identità: viene creato quotidianamente attraverso una serie di interazioni che tendono a definire le differenze tra uomini e donne.
A livello sociale è necessario testimoniare continuamente la propria appartenenza di genere attraverso il comportamento, il linguaggio, il ruolo sociale. Si parla a questo proposito di ruoli di genere: in sostanza, il genere è un carattere appreso e non innato: maschi e femmine si nasce, uomini e donne si diventa.
Il ruolo di genere é lo stigma attribuito a ciascuno dei componenti delle
due categorie sessuali (maschi e femmine) sulla base delle aspettative sociali, che giocano una parte fondamentale nella formazione dell’identità e degli stereotipi di genere, perché “le radici della nostra individualità sono profonde e ci sfuggono perché non ci appartengono, altre le hanno coltivate per noi, a nostra insaputa”
Già nel 1973 Elena Gianini Belotti scriveva, nel noto volume, “Dalla parte delle bambine”:
“Ma se si smette di insegnare al maschio a dominare e alla femmina di accettare e amare di essere dominata, possono fiorire inaspettate e insospettate espressioni individuali molto più ricche, articolate, immaginose dei rispettivi e mortificanti stereotipi.” (p.58).
Il mito della bellezza si riflette nei giornali con
che rappresentano la categoria delle donne giovani e belle,
penalizzando altre immagini che non le corrispondono.
La pubblicità presenta la donna come un corpo malato, disposto ad essere modellato per ottenere l’agognata bellezza, i mezzi di informazione si adeguano anch’essi a questa tendenza
e ripropongono gli stessi stereotipi.
La mitologia delle bellezza esige dalle donne un investimento sempre maggiore di tempo, denaro e impegno.
Si possono osservare stereotipi di genere anche quando
si descrive una persona attraverso i suoi rapporti di parentela e in genere attraverso le sue relazioni affettive,
sottolineando l’identità di sposa, madre, padrona di casa,
oppure come “figlia di” o “sorella di”.
Nei quotidiani il dominio maschile è così interiorizzato che spesso non siamo coscienti del predominio della visione androcentrica della realtà.
I mezzi di comunicazione uniformano l’attualità ad alcuni parametri ripetitivi che finiscono col convertirsi in “modelli di normalità”. Così ad una lettura attenta dei quotidiani non può sfuggire come gran parte delle notizie ed immagini dell’attualità hanno per protagonisti quasi esclusivamente uomini.
Le poche donne in politica vengono presentate come una curiosità: l’invisibilità nei mezzi di comunicazione è a loro garantita. Per lo più l’attenzione è rivolta al corpo femminile, e agli argomenti che riguardano la procreazione.
Nella stampa le icone femminili e maschili tendono a cristallizzarsi.
Quali siano gli elementi costitutivi degli stereotipi di genere è noto, essendo patrimonio del senso comune confermato, peraltro, da innumerevoli ricerche.
Le donne sono percepite come più emotive, gentili, sensibili, dipendenti, poco interessate alla tecnica, curate nell’aspetto, “naturalmente” disposte alla cura: gli uomini al contrario sono percepiti come aggressivi, indipendenti, orientati al mondo e alla tecnica, competitivi, fiduciosi in se stessi, poco emotivi. Si tratta delle caratteristiche appropriate per sostenere il ruolo sociale che ai due sessi viene riservato: il maschio dominante e orientato all’esterno; la femmina dominata e ripiegata su se stessa e sulla casa.
Una visione attuale dell’influenza della pubblicità sul pubblico non può fare a meno di considerare i modelli culturali che essa trasmette.
Per la trasmissione di questi modelli, i media, in particolare la pubblicità, ricorrono alla figura umana come strumento simbolico di comunicazione perché mettono in moto meccanismi di identificazione facili e diretti.
Anche per questo motivo, è possibile studiare gli stereotipi presenti in tali modelli.
Gli studi di genere (gender studies) si sono occupati intensivamente della modalità di presentazione dell’immagine della donna e dell’uomo nella pubblicità.
Nel trasmettere le immagini si danno dei giudizi di valore e si comunicano determinate ideologie sulla società, sui suoi componenti, sulle credenze, sulle funzioni e gli stili di vita.
La pubblicità fornisce al suo pubblico prototipi umani da ammirare e da imitare per potersi identificare con essi in modo soddisfacente.
I prototipi si muovono in contesti e in situazioni che danno luogo a modelli culturali, i quali funzionano come canoni di socializzazione e come motori del comportamento e dell’azione sociale.
Una delle principali dimensioni con cui si costruisce l’identità è la caratterizzazione del genere, a partire dalla costruzione sociale di questo concetto.
La tradizionale divisione del lavoro tra i sessi fornisce una soluzione pratica all’organizzazione di certi servizi personali, quelli che chiamiamo domestici; allo stesso modo le pratiche linguistiche influenzate dal sesso come l’uso del “lui” come pronome relativo “individuale” forniscono una base per un uso spontaneamente concertato dal quale dipende l’efficienza del linguaggio.
Il genere, assieme all’età, ci dice di più della classe e altre divisioni sociali, ci fa capire cosa dovrebbe essere la nostra natura definitiva e come e dove questa natura dovrebbe essere messa in mostra.
Così acquistiamo una vasta raccolta di resoconti da usarsi come fonte di motivi buoni e autosufficienti, proprio come altri acquisiscono un mezzo supremo per discutere del nostro comportamento.
Anche a causa degli stereotipi di genere, una donna troverà una spiegazione per motivare a se stessa l’esclusione lavorativa nei settori in cui gli uomini sono prevalenti (meccanica, finanza, politica e così via).
Così come un uomo potrà rifiutare lavori domestici sulla base del suo genere.
Questi stereotipi vengono applicati all’individuo già dai primi anni di vita, e ne emerge un quadro ben radicato.
Un modo nel quale il peso sociale (potere, autorità, rango, ufficio, celebrità) è riportato espressivamente nella situazione sociale è attraverso le grandezze relative, specialmente l’altezza.
Nell’interazione sociale fra sessi, il dimorfismo biologico sta alla base della probabilità che il superiore status sociale maschile rispetto a quello femminile sarà espresso nella sua maggior circonferenza o altezza. Molto probabilmente una coppia esibirà quindi una differenza in altezza nella direzione che ci si aspetta, e sarà l’uomo ad esibire questa differenza.
Da sempre nell’immaginario collettivo le donne sono abbinate alle scarpe, alle borse, all’abbigliamento, quasi con una sorta di binomio inscindibile ed indiscutibile.
Nelle foto un articolo della rivista Noi Donne degli anni ‘50 mette in luce, accanto alla descrizione del jet set dell’epoca, anche il duro lavoro delle orlatrici che iniziano già a 14 anni a lavorare sulle tomaie.
Accanto, le pubblicità odierne di marchi molto famosi che sfruttano il corpo femminile in un evidente richiamo alla violenza e alla sottomissione.
Nove volte su dieci è un maschio. La presenza delle donne nei media italiana è massiccia, sfiora il 40%.
I dati dell’Ordine dei giornalisti, (settembre 2018), raccontano che, su una platea di oltre 100mila giornalisti iscritti, le donne sotto i 35 anni rappresentano il 46,39%, tra i 35 e i 64 anni – cioè la parte più numerosa della categoria - sono poco sopra il 43%, mentre oltre i 64 anni il dato della presenza femminile crolla al 20,11%.
L’importante numero di donne nei media non si riscontra nei processi decisionali dei giornali: su un totale di 306 direttori, 241 sono uomini e 65 donne; tra i 193 vicedirettori 154 uomini e 39 donne; i capiredattori, su un totale di 1.313 contrattualizzati, 942 sono uomini e 371 donne. (Questi dati – aggiornati al dicembre 2017 - sono ricavati dall’Inpgi, l’istituto che eroga le pensioni ai giornalisti italiani).
Non tragga in inganno l’alto numero di direttori: si tratta in larghissima parte di responsabili di testate giornalistiche molto piccole, senza una vera e propria struttura giornalistica.
Nelle maggiori testate, la piramide del comando è saldamente in mano maschile: una sola direttrice nei tg della tv pubblica Rai (Tg3), due condirettrici nelle tv private Mediaset (Studio Aperto e Tg4, dove sono affiancate da un uomo con maggiori poteri), assenti a La7 e Sky.
Nei grandi quotidiani, tra i maggiori dieci sono presenti due sole direttrici (il manifesto e la Nazione).
Nonostante la partecipazione, più o meno diffusa e più o meno consistente, delle donne nei giornali italiani gli stereotipi di genere sono ancora visibili.
Quindi è lecito chiedersi come mai, se le donne intervengono come massa critica nella produzione, non scompaiano gli stereotipi di genere e in particolare quelli che rafforzano lo status di subordinazione della donna.
Emanuela Abbatecola ha sottolineato come ancora al giorno d’oggi le donne non occupino quasi mai posti direttivi all’interno delle redazioni.
Questo aspetto ha forti conseguenze: non solo limita la possibilità di trasformare il processo e le condizioni di produzione, ma rende anche difficile la diffusione di informazioni relative ai cambiamenti della condizione della donna e ai contenuti che riflettono le possibilità, le attitudini e le esperienze reali delle donne nella società.
Fin dall’inizio la stampa è stata un settore di lavoro maschile, nel quale le donne cominciarono ad occupare posizioni minoritarie nel secolo XIX e all’inizio del secolo XX.
La presenza femminile ha permesso la loro partecipazione alla produzione di periodici, ma non ha impedito che nei risultati di questa produzione continuino a essere presenti diversi stereotipi e, tra gli altri, quelli di genere.
Tra i primi periodici/riviste di genere vi è proprio «Noi donne», nato nel 1944 (le prime uscite clandestine risalgono addirittura al 37 ed arrivano fino al 45: si tratta di edizioni che raccoglievano le espressioni di donne contro il regime nazifascista).
Dai primi numeri fino ai giorni nostri «Noi donne» racconta le attività, le conquiste, i pensieri e i movimenti delle donne.
Dal 1944 fino agli anni 90 «Noi donne» è stata la rivista dell’UDI.
Accanto alle varie forme di violenza di cui sono fatte vittime le donne (fisica, verbale, psicologica, sessuale, economica, stalking) esiste la violenza invisibile, quella perpetrata attraverso il linguaggio, gli stereotipi, i pregiudizi.
Mancano i termini femminili per professioni e cariche in origine riservate solo agli uomini o si continua ad usare il maschile come sostantivo generico indiscriminato.
Nei media continuano ad essere usate la figura maschile universale, utilizzata genericamente per l’individuazione del gruppo umano mentre la figura femminile, è per lo più riferita al mondo dello spettacolo e della cronaca nera.
Durante il processo di socializzazione, in cui intervengono la famiglia, il sistema scolastico, i media, la religione, le amicizie e l’ambiente di contorno, occorre implementare un linguaggio non sessista nelle relazioni sociali, culturali, artistiche, garantendo la trasmissione di immagini egualitarie e non stereotipate di donne e uomini nella società: la comunicazione di genere promuove una rappresentazione degli uomini e donne in linea con il principio di pari opportunità.
Nel suo libro «Gender Advertisements» (1976), Erving Goffman descrive come la femminilità e la mascolinità vengono ritratte attraverso i media occidentali.
Passando al vaglio più di 500 foto pubblicitarie e analizzando le diverse pose, la posizione del corpo, l’abbigliamento, e così via, egli nota dei forti contrasti tra come gli uomini e le donne vengono rappresentati.
Goffman osserva che il comportamento e l’apparenza di un individuo informano chi lo sta guardando della sua identità sociale, il suo umore, il suo intento.
L’autore ci fa notare fenomeni quali:
Le mani della donna sono viste solo nel toccare, stringere, accarezzare, mai nell’afferrare, manipolare o modellare.
(L’immagine tratta dalla copertina del primo numero di «Noi Donne» del 45), mostra come gli stereotipi a cui ormai siamo abituati si possano ‘abbattere’: la ragazza, seppur giovane come ‘le tipiche protagoniste delle pubblicità’, afferra saldamente il vaso, tiene la testa alta, e mostra un’espressione determinata e decisa.
Le donne vengono rappresentate come esili, vulnerabili, fragili, inermi, sognanti, ‘bambinesche’.
Quando uno spot richiede qualcuno seduto o sdraiato si tratta quasi sempre di bambini o donne, quasi mai uomini.
Contrariamente a come vengono raffigurate le donne, gli uomini appaiono come sicuri di sé, a proprio agio, attivi e consapevoli del loro ambiente, persino intimidatori.
Le donne, molto più degli uomini, sono riprese con uno smarrimento psicologico, ad un passo da una situazione sociale che lascia disorientati.
(Come nel caso precedente, anche in questa immagine tratta dal quarto numero del «Noi donne» del 1945 la protagonista va contro le tipiche caratteristiche dei soggetti femminili rappresentati dalle pubblicità.
La ragazza tiene la testa alta, fissa lo sguardo in avanti, non si sa se è seduta o in piedi ma è comunque in una posizione diritta e rigida; appare molto decisa ed è tutt’altro che ‘disorientata’ e ‘smarrita’ (come Goffman osserva nel caso dei soggetti femminili nelle pubblicità).
Ciò che colpisce è che questi messaggi sono stati naturalizzati tanto da non farci porre stranezze sulle pose raffigurate nelle pubblicità (vedi pubblicità radio….)